“Purtroppo, gli Stati Uniti, l’Unione europea e i partner regionali (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, ndr) hanno avuto un ruolo nella nascita dell’Islamic State. Noi abbiamo iniziato la battaglia dal primo giorno. Gli americani hanno assistito a questa catastrofe e hanno reagito contro l’IS solo dopo l’assassinio dei due giornalisti statunitensi e la pressione dell’opinione pubblica americana. Quindi non possiamo fidarci della coalizione, perché ci sono paesi che hanno creato questo gruppo ma allo stesso tempo vogliono combatterlo. Alla luce di questa contraddizione e della mancanza di fiducia, andiamo avanti da soli e gli americani procedono parallelamente nell’ambito della coalizione”.
Intervistato lo scorso 30 ottobre da Euronews, il presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento iraniano Alaeddin Boroujerdi non lascia molto spazio alle ambiguità quando gli chiedono della possibilità di cooperare con gli Stati Uniti nella guerra contro i miliziani dell’IS/Daesh. Tra i paesi che combattono o che hanno dichiarato disponibilità a combattere i miliziani fedeli ad Abu Bakr Al Baghdadi, l’Iran ha assunto, sin dall’inizio, una posizione estremamente netta. Lo ha fatto per due motivi, entrambi frutto del pragmatismo più che dell’ideologia, che pure continua ad avere un peso nella Repubblica islamica. Questi due motivi sono la percezione di una potenziale minaccia esistenziale alle porte del paese e l’aperta ostilità nei confronti del wahabismo, impalcatura ideologica sulla quale poggiano i miliziani dell’IS ma anche alcuni altri attori sulla scena mondiale, statali (Arabia Saudita) e non (Al Qaeda, Jaish al Adl, Talebani). Questi attori sono tutti concettualmente nemici giurati dell’Iran, considerato un paese di “miscredenti”, poiché sciita. L’Iran sciita è forse l’unico Stato nella regione a non avere alcun interesse che il jihad globale – inaugurato da al Qaeda e oggi portato avanti soprattutto dall’IS nel cuore del Medioriente – si affermi. Perché il jihad globale takfirita punta gli sciiti (circa il 10-15% dei musulmani nel mondo) ancor prima dell’occidente, aldilà dei proclami e degli slogan.
L’Iran può fare ben poco contro l’espansione del wahabismo, guidata dalle ingenti risorse finanziarie di chi se ne fa promotore. Per scongiurare minacce esistenziali ha bisogno perlomeno di vicini non ostili, di paesi confinanti che non rendano insostenibile quella che in ogni caso rimane una condizione di isolamento internazionale del regime nato con la rivoluzione del 1979. E guardando la mappa geografica, non è complesso capire come tre dei principali paesi confinanti (Iraq, Afghanistan e Pakistan) presentino delle minacce per Teheran.
Le parole di Boroujerdi ad Euronews riflettono la posizione di buona parte dell’arena politica e dell’establishment di Teheran, oggi dominato dai conservatori-principalisti, che inscrivono l’ascesa dell’IS nello stesso solco di quella dei mujaheddin afghani a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, finanziati dagli Usa in funzione anti-sovietica. Secondo questo punto di vista, l’IS è stato creato dalle potenze occidentali, alleate dei paesi del Golfo sunniti e ostili all’Iran, per impedire l’ascesa di Teheran al rango di potenza regionale con pretese di egemonia.
Le teorie del complotto sono speculari: anche l’Arabia Saudita, ed in parte alcuni oltranzisti a Tel Aviv (il Jerusalem Center for Public Affairs ha pubblicato l’articolo “ISIS: Iran’s Instrument for Regional Hegemony?”) ritengono che l’IS sia uno strumento nelle mani dell’Iran, che eviterebbe di combattere i miliziani di Al Baghdadi in Siria per spingere la comunità internazionale, nel tempo, a ritrovarsi di fronte alla scelta obbligata tra Assad e un manipolo di predoni e tagliagole. Ciò, per molti versi, contrasta con quanto sta avvenendo sul campo di battaglia in Iraq, dove i successi militari più rilevanti sono stati ottenuti dalle milizie sciite filo iraniane, supportate da funzionari dell’IRGC e dagli uomini della Brigata al Quds guidata dallo 007 iraniano, Qassem Suleimani.
Per Teheran l’IS costituisce una minaccia regionale, non globale. Un problema da risolvere militarmente, gettando nel frattempo le basi diplomatiche per un Iraq non ostile alla Repubblica islamica. Sono passati quasi cinque mesi dalla sconcertante presa di Mosul da parte dei miliziani di Daesh, e poco meno di quattro dalla proclamazione del Califfato da parte di Al Baghdadi. Quel giorno, dopo che l’esercito iracheno si ritirò di fronte all’avanzata dei miliziani, Teheran decise di intervenire, inviando funzionari dell’IRGC a Baghdad, mentre Suleimani già si trovava a Samarra per riorganizzare una strategia difensiva.
Una logica già sperimentata nel 2012, quando in Siria la caduta di Assad sembrava imminente: in quel contesto, l’Iran decise di inviare in territorio siriano migliaia di addestratori iraniani e alcune milizie sciite irachene per fornire supporto al governo ba’athista. Contribuì poi fornendo una quantità enorme di armamenti, donando 500 milioni di dollari al mese per gli stipendi dei funzionari governativi siriani ed erogando un prestito da sette miliardi dollari a Damasco.
Certo, non è solo per pragmatismo che Teheran ritiene fondamentale la difesa di Baghdad e dei santuari sciiti di Najaf e Karbala, mentre considera di minore importanza il resto del territorio. Come ricorda l’analista Nima Baheli, c’è anche l’antico trattato di Qasr e Shirin, concluso tra impero persiano e ottomano nel lontano 1723, che conferisce a Teheran diritti di tutela sui santuari sciiti iracheni e permette in teoria di intervenire per proteggerli. La portata simbolica di questo trattato ci ricorda che Teheran vede Najaf e Kerbala quasi allo stesso modo in cui Ryad vede La Mecca e Medina.
I funzionari dell’Irgc, da quando i miliziani dell’IS sono entrati in Iraq, non mancano mai di ricordare quale sia il punto da non oltrepassare (“Se si avvicinano a Kerbala e Najaf, tutte le risorse potranno essere impiegate e ogni opzione è sul tavolo”, minacciava il generale dell’Irgc Esmail Moghaddam pochi giorni dopo la presa di Mosul, e a lui hanno fatto eco molti altri), pena un concreto impegno militare iraniano, eventualmente anche con truppe di terra. Impegno che ad oggi appare comunque improbabile.
L’Iran possiede il quinto esercito del Medioriente, dotato di un personale militare di circa 550.000 uomini, circa 2400 carri armati e 481 aerei da combattimento. Se in Siria Teheran sostiene l’esercito di Assad – più forte di quello iracheno – in Iraq il coinvolgimento è certamente più concreto e diversificato, e i media conservatori iraniani non mancano di ricordarlo, celebrando i successi militari delle milizie sciite supportate da Teheran.
Lo scorso 24 ottobre le Biragte Badr di Hadi Al-Amiri, la Lega dei Giusti, gli Hezbollah iracheni e altre formazioni paramilitari (inclusi volontari iracheni di ritorno dalla Siria) coordinate da Qassem Suleimani e allineate alle truppe irachene hanno lanciato l’operazione “Ashura” e dopo cinque giorni di combattimenti hanno sconfitto i miliziani dell’IS nella battaglia di Jurf al-Sakhar. Secondo Arash Karami su Al- Monitor, la vittoria sarebbe stata raggiunta senza il supporto degli strike aerei della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti. Jurf al-Sakhar è una cittadina a maggioranza sunnita a circa 60 km a sud di Baghdad e la sua liberazione avrebbe un alto significato strategico, poiché impedirebbe all’IS di mantenere un collegamento con alcune sue roccaforti nella regione di Anbar e li terrebbe inoltre lontani da Kerbala e Najaf. Secondo fonti americane, l’Iran avrebbe anche costituito un centro di controllo nella base aerea di Rasheed vicino a Baghdad, installandovi una piccola flotta di droni di sorveglianza “Ababil”. Inoltre, con il duplice obiettivo di “appaltare” la guerra all’IS nel nord dell’Iraq alle forze curde e di moderarne le future richieste di maggiore autonomia, Teheran ha fornito per prima e sin da giugno armi e munizioni al governo regionale (Krg) di Barzani, come lo stesso governatore ha ammesso.
Quello iraniano in Iraq è un impegno sostanziale, certamente interessato e funzionale alla costruzione di un vicinato amichevole. Forse non è un caso che lo scorso 24 ottobre il primo ministro iracheno Haider Al Abadi abbia nominato come nuovo ministro dell’Interno Mohammed Ghabban. Ghabban fa parte delle Brigate Badr, che con il Consiglio Islamico Supremo dell’Iraq di Hammar Al Hakim sono forse le organizzazioni più fedeli a Teheran. Qualche giorno prima, Al-Abadi era volato a Teheran, dove aveva incontrato anche la Guida Suprema Ali Khamenei.
Dopo il 2003, Teheran ha investito notevoli risorse finanziarie, politiche e militari per garantirsi un Iraq alleato. L’Iraq è oggi uno dei principali partner commerciali dell’Iran, con un interscambio di circa 13 miliardi dollari nel 2013.
Con Ankara, Teheran condivide certamente l’inimicizia verso Daesh e il proposito di contenere le ulteriori mire autonomiste dei curdi, anche se va detto che il rischio disgregazione derivante da una possibile futura indipendenza curda è più forte per la Turchia, dove i curdi sono più organizzati. Lo scorso giugno, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha visitato Ankara a 18 anni dall’ultima visita presidenziale in Turchia (era il 1996 e il presidente era Rafsanjani), dopo che l’ex ministro degli Esteri turco (dallo scorso 28 agosto nuovo Primo ministro) Ahmet Davutoglu aveva presenziato al giuramento presidenziale dello stesso Rouhani. Iran e Turchia non possono ignorarsi: sono troppi i punti di contatto, le possibili aree di cooperazione o i potenziali attriti. Ciò sembra essere pienamente compreso dai rappresentanti dei due Paesi: la scorsa settimana l’ambasciatore iraniano in Turchia Alireza Bigdeli faceva eco alle parole di Erdogan di pochi giorni prima, che definiva “evitabile questo spargimento di sangue se con l’Iran ci fosse stata comprensione reciproca”. Il segnale di una volontà, seppure in presenza di interessi in parte divergenti.
L’Iran è il terzo mercato d’esportazione per la Turchia, e nel 2012 l’interscambio commerciale tra i due paesi è stato di circa 20 miliardi di dollari. A ciò va aggiunto il fatto che Ankara è un acquirente del greggio e del gas iraniani.
E’ probabile che se la Siria di Assad non esistesse, oggi si parlerebbe di due Paesi in fase di riavvicinamento, anziché di contrasti. Ovviamente, le posizioni rispetto al regime siriano sono opposte. Se ad inizio ottobre Erdogan proponeva, in cambio del coinvolgimento del’esercito turco nelle operazioni di terra sui militanti dell’Isis a Kobane, la creazione di una buffer zone nella aree curde di confine tra Siria e Turchia, l’istituzione di una no fly zone nel nord est della stessa Siria per neutralizzare le forze aeree di Assad e facilitare la formazione di un’area sotto il controllo delle opposizioni siriane, gli iraniani rispondevano ribadendo l’irrinunciabilità della tutela del regime siriano. Dopo le proposte di Erdogan, lo scorso 8 ottobree la portavoce del ministero degli Esteri iraniano Marzieh Afkham ribadiva che Kobane “fa parte della sovranità siriana e della sua integrità territoriale”. Erdogan vorrebbe vincolare l’impegno di terra alla rimozione di Assad, obiettivo non prioritario per Washington (mentre probabilmente sarebbe decisivo dal punto di vista militare l’intervento di terra del potente esercito turco a Kobane) e assolutamente non condiviso da Teheran, che d’altronde continua a fornire assistenza al governo siriano.
Nel corso dell’ultima settimana di ottobre la tensione si è alzata: alle scaramucce sulla crisi dei Truck (Ankara ha aumentato la tariffe per l’ingresso di camionisti iraniani in Turchia) si sono aggiunte le reciproche accuse di voler prolungare il conflitto in Siria: l’Iran disseminando il Levante di miliziani sciiti, la Turchia evitando un coinvolgimento diretto e un intervento deciso contro l’Isis alle porte del paese.
“Dai tempi dell’impero ottomano i due paesi hanno sempre trovato il modo di convivere pacificamente, nonostante le crisi e le difficoltà. Tuttavia, non sono stati in grado di passare il test della Siria. Gli iraniani credono che la Turchia agisca in modo settario. E per loro la minaccia principale risiede nel settarismo sunnita contro gli sciiti”, afferma il politologo dell’Università di Istanbul Nuray Mert, recentemente in visita a Teheran.
Nel frattempo lo scorso 30 ottobre – mentre i primi pashmerga entravano nella città di Kobane, al confine tra Turchia e Siria – il vice ministro degli Esteri iraniano Amir Abdollahian ha avvertito la comunità internazionale che “l’Iran scruta attentamente le mosse di quelle nazioni estere che stanno cercando di approfittare della situazione di Kobane e minacciare l’unità e l’integrità territoriale della Siria”, con un chiaro riferimento al timore che gli strike aerei nel paese abbiano in realtà l’obiettivo di colpire anche l’alleato Assad (proprio ciò che vorrebbe Ankara).
Questo il quadro del coinvolgimento militare iraniano nella guerra all’IS. Non va dimenticato che dal 2006, cioè da quando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha preso in mano il dossier nucleare iraniano, esso ha emesso, sotto pressione americana, alcune risoluzioni che nel tempo hanno reso ancor più stringente l’embargo di armamenti nei confronti della Repubblica islamica. Ciò ha delle conseguenze. In primis, concorre a minare la credibilità dell’Onu, che i conservatori di Teheran considerano uno strumento politico nella mani degli Usa. In secondo luogo, l’embargo sugli armamenti dovrebbe dare la misura dell’intensità dello sforzo iraniano nella guerra contro l’IS, che forse sarebbe ancor più efficace se esso venisse meno o fosse allentato.
I prossimi negoziati di fine novembre sul nucleare iraniano tra Teheran e il 5+1 saranno importanti anche per capire se la cooperazione con gli Usa – che sul campo è un fatto, ma viene tenuta nascosta per non trasmettere la sensazione al mondo sunnita di una alleanza “cristiano-sciita” con l’Iran, visto con sospetto in gran parte del mondo arabo e dagli alleati statunitensi nel Golfo – potrà assumere maggiore concretezza. L’Iran è chiaramente disposto a procedere autonomamente nella guerra contro l’IS, a meno che Washington non faccia concessioni importanti sul dossier nucleare.
L’esclusione di Teheran dalla conferenza multinazionale del 15 settembre ha fornito agli iraniani anche il “pretesto” diplomatico per rivendicare la propria autonomia operativa, nonostante il ministro degli Esteri Javad Zarif e lo stesso Rouhani siano in realtà fautori di una linea più accondiscendente con gli Usa, disposti a cooperare più apertamente in cambio del graduale riconoscimento dell’Iran al ruolo di potenza regionale.
L’analista della London School of Economics Fawaz Gerges fotografa con una frase la posizione iraniana: “Teheran è in Iraq per rimanerci e sta dimostrando quanto seriamente prenda la minaccia dell’IS. Ed è con serietà, che vuole essere trattata”.