Anniversari – la rivoluzione iraniana compie 36 anni

Esattamente 36 anni fa la principale rivoluzione popolare dal 1789 ad oggi, quella guidata da Ruhollah Khomeini, si imponeva in Iran, dopo mesi di disordini, repressioni e affrettati tentativi di rimpasto governativo.

L’11 febbraio 1979 la guardia imperiale si arrende. Migliaia di giovani soldati di leva, in gran parte ammiratori di Khomeini (in esilio all’estero fino alla rivoluzione), defezionano. Lo Shah Palhavi, malato di cancro, vola prima a Saint Moritz, poi in Usa e infine in Egitto, dove morirà ospite di Sadat.

48 giorni dopo, il 30 marzo, si svolge un referendum che sancisce ufficialmente la fine della monarchia. L’Iran diventa una Repubblica, una Repubblica islamica. La prima di questo tipo, anche se il Pakistan a maggioranza sunnita può già vantare questo appellativo.

Qualche mese più tardi, dopo aver ricevuto rassicurazioni e promesse di supporto da alcuni paesi occidentali, Saddam Hussein attacca l’Iran, dando vita a quella che molti iraniani ricordano come la guerra “imposta”. Durerà 8anni, nei quali Saddam userà le armi chimiche ad Hallabjah (vergognoso l’immobilismo e il silenzio non solo delle grandi potenze – che speravano nella sconfitta iraniana – ma anche dell’Onu, che dopo, molto dopo, l’aggressione continuata di Saddam e la risposta iraniana imposero il cessate il fuoco…ma non il ritiro delle truppe irachene dal territorio iraniano!) e farà lanciare alcuni missili anche su Teheran.

La guerra finisce nell’88 con quasi due milioni di morti complessivi, una profonda diffidenza di Teheran verso alcuni paesi del mondo occidentale e la sua condizione di totale isolamento regionale, per cui da quel momento una priorità sarà lavorare ad un vicinato non ostile.

Ma Khomeini e’ morto. Inizia un’altra fase, che parte dalla conta dei martiri ricordati a ogni strada delle città iraniane principali e arriva ad oggi, con l’Iran di nuovo alle prese con un Iraq problematico, infestato dallo Stato islamico che vuole distruggere l’Iraq stesso come l’Iran.

Nel frattempo, la società iraniana muta al suo interno, con ritmi, dinamiche e intensità sconosciute ad altri paesi dell’area. Gli anni 90 saranno gli anni della ricostruzione – nonostante le pesanti sanzioni imposte contro il Paese, che ne mineranno l’efficacia – , anticamera degli anni 2000 in cui inizierà la fase della messa in discussione interna del Regime, del suo cambiamento, della sua mutazione ed evoluzione endogena. Arriverà l’elezione del dialogante Khatami, il cui mandato naufragherà con il discorso allo stato dell’Unione di Bush jr nel 2002, quello dell’asse Del male. Arriverà il 2005, poi il 2009, fino alla elezione di ‘compromesso’, quella di Rouhani del 2013. Poi arriverà Daesh e il suo terrore, non lontano da ilam e kermanshah.

36 lunghissimi anni dopo, tanti auguri Iran (torno da te il prossimo giugno)

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Iranians gather in Tehran’s Azadi Square (Freedom Square) for a rally to mark the 36th anniversary of the Islamic revolution on February 11, 2015. AFP PHOTO / ATTA KENARE

Il negoziato sul nucleare dal punto di vista dell’Iran

C’è stato un momento, alla vigilia dell’ultimo incontro di Vienna tra 5+1 e Iran, in cui un’intesa sul nucleare sembrava vicinissima. Lo scorso 16 novembre, mentre le delegazioni si incontravano alla corte del sultano Qaboos in Oman per sondare il terreno di fronte ad un mediatore imparziale, il quotidiano The Guardian titolava “Iran e Stati Uniti vicini ad uno storico accordo sul nucleare a Vienna”.

Lo scorso 24 novembre, invece, un accordo non è stato raggiunto. Le delegazioni iraniana e quelle dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia e Cina) con l’aggiunta della Germania hanno deciso di estendere di altri sette mesi il negoziato (fino al primo luglio 2015), preservando i termini del Joint Plan of Action (Jpoa) e congelando lo sviluppo del programma nucleare iraniano. Un risultato minimo prevedibile, che esclude un vincitore ed uno sconfitto ma che allo stesso modo rende insoddisfatte tutte le parti, consce di aver perso forse l’ennesima occasione per un’intesa.

Al suo ritorno in patria, il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha partecipato ad un meeting con gli studenti dell’Università Allameh Tabatabaei di Teheran, intitolato “Diplomasiye Hastei” (Diplomazia nucleare), in cui ha affermato che un accordo di massima è vicino. Lo stesso ha fatto il presidente Rouhani, in visita nella provincia settentrionale del Golestan il 2 dicembre. Si tratta di prevedibile retorica, perché un’ intesa è tutt’altro che imminente.

Una retorica che oggi, paradossalmente, è più semplice da costruire: se su determinate questioni il presidente si rivolge all’elettorato in modo diverso da come fa con la Guida Suprema Ali Khamenei – che deve essere aggiornato sulla conduzione della politica estera, di cui è il decisore in ultima istanza -,   sul tema dell’energia atomica Rouhani può impostare lo stesso tipo di retorica con entrambi gli interlocutori, poiché il programma nucleare iraniano è sostenuto dalla stragrande maggioranza della società e dei segmenti politici. In un paese che produce un gran numero di ingegneri, fisici, matematici, tecnici e medici quello dello sviluppo dell’energia nucleare come fonte energetica alternativa al petrolio è considerato un punto irrinunciabile, attorno al quale si riuniscono conservatori, riformisti, falchi, colombe e buona parte della società (fortemente interconnessa allo Stato) nel suo insieme. Secondo un sondaggio commissionato da Gallup lo scorso anno – al termine dell’anno in cui le sanzioni avevano provato maggiormente l’economia dell’Iran – il 56% degli iraniani si dichiarava favorevole al proseguimento del un programma nucleare per usi civili.

A Vienna sono rimasti insoluti i principali nodi. In primis, il numero delle centrifughe attive in Iran: ad oggi sono circa 9,400. Il 5+1 chiede che vengano ridotte a 4000, dopo una iniziale richiesta di 1500 nelle prime fasi dei negoziati. In secondo luogo, la durata dell’accordo: l’Iran spinge per 5 anni, gli Stati Uniti in particolare puntano a una durata doppia, di 10 anni. Infine, le modalità e i tempi di rimozione delle sanzioni: Teheran chiede la loro totale rimozione (cioè di quelle decise dalle Nazioni Unite, dagli Stati Uniti e dall’Ue) mentre il 5+1 insiste sulla rimozione graduale, in modo da potervi vincolare in futuro ulteriori richieste, nell’ambito di un processo a più fasi.

Se a Washington si teme che il fronte ultra-conservatore iraniano possa da un momento all’altro sabotare il negoziato, a Teheran il timore è duplice. Da una parte si teme che il Congresso americano possa varare presto nuove sanzioni sotto il dominio dei Repubblicani e con una posizione trasversalmente ostile ad un accordo con l’Iran, alimentata da lobbies saudite, israeliane, da settori dell’industria militare e da buona parte dei Dem. Dall’altra, vi è il sospetto – condiviso grossomodo da tutto lo spettro politico iraniano – che i cosiddetti falchi americani aspirino ad allargare l’ambito del negoziato, fino a comprendere l’ambito dei diritti umani, l’industria missilistica iraniana e in generale la politica estera di Teheran, con particolare riferimento al sostegno a Hezbollah.

Nei giorni precedenti all’ultimo round vi era la sensazione di un possibile accordo, rafforzata da un elemento nuovo: l’offerta della Russia – smentita in seguito da Teheran – di ospitare una quantità di uranio arricchito iraniano sul proprio territorio. Poi è accaduto qualcosa, ed i media statunitensi in particolare sono passati, in un giorno, dal prefigurare un imminente accordo al salutare con moderata soddisfazione il prolungamento dei negoziati. Nelle stesse ore, in Iran, il capo dell’Irgc, il generale Mohammad Ali Jafari, e il capo delle milizie Basiji, il generale Mohammad Reza Nagdi, criticavano aspramente gli Stati Uniti.

Come ha ricordato Nicola Pedde, e come si evince anche dalla pubblicazione il mese scorso in Iran di una lista di 11 “linee rosse” che Rouhani e la sua delegazione non possono oltrepassare, la Guida Suprema Ali Khamenei ha dimostrato equilibrio nella gestione di questa fase negoziale: ha garantito il necessario sostegno a Rouhani, senza tuttavia mai cambiare idea su quella che considera l’ambigua natura degli interlocutori internazionali dell’Iran. La gran parte di coloro che rappresentano la prima generazione del potere politico iraniano, di cui la Guida è un esponente, è infatti convinta della mancanza di una concreta volontà negoziale degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei, che in realtà punterebbero ad un regime change a Teheran come presupposto fondamentale per un dialogo multilaterale.

Le posizioni della parte più intransigente dell’establishment iraniano non sono motivate dall’ideologia ma da elementi concreti. Perché allo stesso modo in cui in Occidente si tende ad evidenziare la rigidità degli iraniani, commettendo l’errore di considerare omogeneo il loro quadro politico, in Iran si compie l’operazione analoga, tanto nei media quanto nei centri di potere formali. E i segnali lanciati dall’Occidente sono, nell’ottica dei falchi iraniani, preoccupanti.

Altro aspetto da ricordare è che la delegazione iraniana guidata da Rouhani e Zarif sta mostrando una buona volontà a cui non è tenuta. Non solo perché essa deve fare i conti con le linee rosse della Guida Suprema e i sospetti sopra menzionati, ma anche per via di un elemento che spesso la durata decennale della querelle nucleare fa dimenticare: come paese firmatario del Trattato di non proliferazione, l’Iran ha il diritto ad arricchire l’uranio senza alcuna limitazione, come fanno o hanno fatto altri paesi con un programma nucleare civile.

Il Trattato – ed è questo il solido appiglio legale degli iraniani – non menziona alcun limite percentuale per l’arricchimento. Come è noto, arricchire uranio può avere in sostanza due propositi: produrre energia nucleare o ottenere la bomba atomica. Gli esperti in materia hanno considerato che con dell’uranio arricchito al 90%  è possibile ottenere una bomba atomica nell’arco di due-tre mesi. Il punto è che anche per produrre con maggiore efficienza energia nucleare è auspicabile arricchire uranio a percentuali più elevate possibile. Chiedere di limitare l’arricchimento, in un certo senso, equivale nell’ottica iraniana a porre dei limiti alla propria efficienza. Un po’ come avere due tipi di lampadine ed essere costretti a usare quelle più deboli: la sala si illumina ugualmente, ma certo con meno intensità.

La guerra dell’Iran contro lo Stato Islamico

“Purtroppo, gli Stati Uniti, l’Unione europea e i partner regionali (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, ndr) hanno avuto un ruolo nella nascita dell’Islamic State. Noi abbiamo iniziato la battaglia dal primo giorno. Gli americani hanno assistito a questa catastrofe e hanno reagito contro l’IS solo dopo l’assassinio dei due giornalisti statunitensi e la pressione dell’opinione pubblica americana. Quindi non possiamo fidarci della coalizione, perché ci sono paesi che hanno creato questo gruppo ma allo stesso tempo vogliono combatterlo. Alla luce di questa contraddizione e della mancanza di fiducia, andiamo avanti da soli e gli americani procedono parallelamente nell’ambito della coalizione”.

Intervistato lo scorso 30 ottobre da Euronews, il presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento iraniano Alaeddin Boroujerdi non lascia molto spazio alle ambiguità quando gli chiedono della possibilità di cooperare con gli Stati Uniti nella guerra contro i miliziani dell’IS/Daesh. Tra i paesi che combattono o che hanno dichiarato disponibilità a combattere i miliziani fedeli ad Abu Bakr Al Baghdadi, l’Iran ha assunto, sin dall’inizio, una posizione estremamente netta. Lo ha fatto per due motivi, entrambi frutto del pragmatismo più che dell’ideologia, che pure continua ad avere un peso nella Repubblica islamica. Questi due motivi sono la percezione di una potenziale minaccia esistenziale alle porte del paese e l’aperta ostilità nei confronti del wahabismo, impalcatura ideologica sulla quale poggiano i miliziani dell’IS ma anche alcuni altri attori sulla scena mondiale, statali (Arabia Saudita) e non (Al Qaeda, Jaish al Adl, Talebani). Questi attori sono tutti concettualmente nemici giurati dell’Iran, considerato un paese di “miscredenti”, poiché sciita. L’Iran sciita è forse l’unico Stato nella regione a non avere alcun interesse che il jihad globale – inaugurato da al Qaeda e oggi portato avanti soprattutto dall’IS nel cuore del Medioriente – si affermi. Perché il jihad globale takfirita punta gli sciiti (circa il 10-15% dei musulmani nel mondo) ancor prima dell’occidente, aldilà dei proclami e degli slogan.

L’Iran può fare ben poco contro l’espansione del wahabismo, guidata dalle ingenti risorse finanziarie di chi se ne fa promotore. Per scongiurare minacce esistenziali ha bisogno perlomeno di vicini non ostili, di paesi confinanti che non rendano insostenibile quella che in ogni caso rimane una condizione di isolamento internazionale del regime nato con la rivoluzione del 1979. E guardando la mappa geografica, non è complesso capire come tre dei principali paesi confinanti (Iraq, Afghanistan e Pakistan) presentino delle minacce per Teheran.
Le parole di Boroujerdi ad Euronews riflettono la posizione di buona parte dell’arena politica e dell’establishment di Teheran, oggi dominato dai conservatori-principalisti, che inscrivono l’ascesa dell’IS nello stesso solco di quella dei mujaheddin afghani a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, finanziati dagli Usa in funzione anti-sovietica. Secondo questo punto di vista, l’IS è stato creato dalle potenze occidentali, alleate dei paesi del Golfo sunniti e ostili all’Iran, per impedire l’ascesa di Teheran al rango di potenza regionale con pretese di egemonia.

Le teorie del complotto sono speculari: anche l’Arabia Saudita, ed in parte alcuni oltranzisti a Tel Aviv (il Jerusalem Center for Public Affairs  ha pubblicato l’articolo “ISIS: Iran’s Instrument for Regional Hegemony?”) ritengono che l’IS sia uno strumento nelle mani dell’Iran, che eviterebbe di combattere i miliziani di Al Baghdadi in Siria per spingere la comunità internazionale, nel tempo, a ritrovarsi di fronte alla scelta obbligata tra Assad e un manipolo di predoni e tagliagole. Ciò, per molti versi, contrasta con quanto sta avvenendo sul campo di battaglia in Iraq, dove i successi militari più rilevanti sono stati ottenuti dalle milizie sciite filo iraniane, supportate da funzionari dell’IRGC e dagli uomini della Brigata al Quds guidata dallo 007 iraniano, Qassem Suleimani.

Per Teheran l’IS costituisce una minaccia regionale, non globale. Un problema da risolvere militarmente, gettando nel frattempo le basi diplomatiche per un Iraq non ostile alla Repubblica islamica. Sono passati quasi cinque mesi dalla sconcertante presa di Mosul da parte dei miliziani di Daesh, e poco meno di quattro dalla proclamazione del Califfato da parte di Al Baghdadi. Quel giorno, dopo che l’esercito iracheno si ritirò di fronte all’avanzata dei miliziani, Teheran decise di intervenire, inviando funzionari dell’IRGC a Baghdad, mentre Suleimani già si trovava a Samarra per riorganizzare una strategia difensiva.

Una logica già sperimentata nel 2012, quando in Siria la caduta di Assad sembrava imminente: in quel contesto, l’Iran decise di inviare in territorio siriano migliaia di addestratori iraniani e alcune milizie sciite irachene per fornire supporto al governo ba’athista. Contribuì poi fornendo una quantità enorme di armamenti, donando 500 milioni di dollari al mese per gli stipendi dei funzionari governativi siriani ed erogando un prestito da sette miliardi dollari a Damasco.

Certo, non è solo per pragmatismo che Teheran ritiene fondamentale la difesa di Baghdad e dei santuari sciiti di Najaf e Karbala, mentre considera di minore importanza il resto del territorio. Come ricorda l’analista Nima Baheli, c’è anche l’antico trattato di Qasr e Shirin, concluso tra impero persiano e ottomano nel lontano 1723, che conferisce a Teheran diritti di tutela sui santuari sciiti iracheni e permette in teoria di intervenire per proteggerli. La portata simbolica di questo trattato ci ricorda che Teheran vede Najaf e Kerbala quasi allo stesso modo in cui Ryad vede La Mecca e Medina.

I funzionari dell’Irgc, da quando i miliziani dell’IS sono entrati in Iraq, non mancano mai di ricordare quale sia il punto da non oltrepassare (“Se si avvicinano a Kerbala e Najaf, tutte le risorse potranno essere impiegate e ogni opzione è sul tavolo”, minacciava il generale dell’Irgc Esmail Moghaddam pochi giorni dopo la presa di Mosul, e a lui hanno fatto eco molti altri), pena un concreto impegno militare iraniano, eventualmente anche con truppe di terra. Impegno che ad oggi appare comunque improbabile.

L’Iran possiede il quinto esercito del Medioriente, dotato di un personale militare di circa 550.000 uomini, circa 2400 carri armati e 481 aerei da combattimento. Se in Siria Teheran sostiene l’esercito di Assad – più forte di quello iracheno – in Iraq il coinvolgimento è certamente più concreto e diversificato, e i media conservatori iraniani non mancano di ricordarlo, celebrando i successi militari delle milizie sciite supportate da Teheran.

Lo scorso 24 ottobre le Biragte Badr di Hadi Al-Amiri, la Lega dei Giusti, gli Hezbollah iracheni e altre formazioni paramilitari (inclusi volontari iracheni di ritorno dalla Siria) coordinate da Qassem Suleimani e allineate alle truppe irachene hanno lanciato l’operazione “Ashura” e dopo cinque giorni di combattimenti hanno sconfitto i miliziani dell’IS nella battaglia di Jurf al-Sakhar. Secondo Arash Karami su Al- Monitor, la vittoria sarebbe stata raggiunta senza il supporto degli strike aerei della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti. Jurf al-Sakhar è una cittadina a maggioranza sunnita a circa 60 km a sud di Baghdad e la sua liberazione avrebbe un alto significato strategico, poiché impedirebbe all’IS di mantenere un collegamento con alcune sue roccaforti nella regione di Anbar e li terrebbe inoltre lontani da Kerbala e Najaf.  Secondo fonti americane, l’Iran avrebbe anche costituito un centro di controllo nella base aerea di Rasheed vicino a Baghdad, installandovi una piccola flotta di droni di sorveglianza “Ababil”. Inoltre, con il duplice obiettivo di “appaltare” la guerra all’IS nel nord dell’Iraq alle forze curde e di moderarne le future richieste di maggiore autonomia, Teheran ha fornito per prima e sin da giugno armi e munizioni al governo regionale (Krg) di Barzani, come lo stesso governatore ha ammesso.

Quello iraniano in Iraq è un impegno sostanziale, certamente interessato e funzionale alla costruzione di un vicinato amichevole. Forse non è un caso che lo scorso 24 ottobre il primo ministro iracheno Haider Al Abadi abbia nominato come nuovo ministro dell’Interno Mohammed Ghabban. Ghabban fa parte delle Brigate Badr, che con il Consiglio Islamico Supremo dell’Iraq di Hammar Al Hakim sono forse le organizzazioni più fedeli a Teheran. Qualche giorno prima, Al-Abadi era volato a Teheran, dove aveva incontrato anche la Guida Suprema Ali Khamenei.

Dopo il 2003, Teheran ha investito notevoli risorse finanziarie, politiche e militari per garantirsi un Iraq alleato. L’Iraq è oggi uno dei principali partner commerciali dell’Iran, con un interscambio di circa 13 miliardi dollari nel 2013.

Con Ankara, Teheran condivide certamente l’inimicizia verso Daesh e il proposito di contenere le ulteriori mire autonomiste dei curdi, anche se va detto che il rischio disgregazione derivante da una possibile futura indipendenza curda è più forte per la Turchia, dove i curdi sono più organizzati. Lo scorso giugno, il presidente iraniano Hassan Rouhani ha visitato Ankara a 18 anni dall’ultima visita presidenziale in Turchia (era il 1996 e il presidente era Rafsanjani), dopo che l’ex ministro degli Esteri turco (dallo scorso 28 agosto nuovo Primo ministro) Ahmet Davutoglu aveva presenziato al giuramento presidenziale dello stesso Rouhani. Iran e Turchia non possono ignorarsi: sono troppi i punti di contatto, le possibili aree di cooperazione o i potenziali attriti. Ciò sembra essere pienamente compreso dai rappresentanti dei due Paesi: la scorsa settimana l’ambasciatore iraniano in Turchia Alireza Bigdeli faceva eco alle parole di Erdogan di pochi giorni prima, che definiva “evitabile questo spargimento di sangue se con l’Iran ci fosse stata comprensione reciproca”. Il segnale di una volontà, seppure in presenza di interessi in parte divergenti.

L’Iran è il terzo mercato d’esportazione per la Turchia, e nel 2012 l’interscambio commerciale tra i due paesi è stato di circa 20 miliardi di dollari. A ciò va aggiunto il fatto che Ankara è un acquirente del greggio e del gas iraniani.

E’ probabile che se la Siria di Assad non esistesse, oggi si parlerebbe di due Paesi in fase di riavvicinamento, anziché di contrasti. Ovviamente, le posizioni rispetto al regime siriano sono opposte. Se ad inizio ottobre Erdogan proponeva, in cambio del coinvolgimento del’esercito turco nelle operazioni di terra sui militanti dell’Isis a Kobane, la creazione di una buffer zone nella aree curde di confine tra Siria e Turchia, l’istituzione di una no fly zone nel nord est della stessa Siria per neutralizzare le forze aeree di Assad e facilitare la formazione di un’area sotto il controllo delle opposizioni siriane, gli iraniani rispondevano ribadendo l’irrinunciabilità della tutela del regime siriano. Dopo le proposte di Erdogan, lo scorso 8 ottobree la portavoce del ministero degli Esteri iraniano Marzieh Afkham ribadiva che Kobane “fa parte della sovranità siriana e della sua integrità territoriale”. Erdogan vorrebbe vincolare l’impegno di terra alla rimozione di Assad, obiettivo non prioritario per Washington (mentre probabilmente sarebbe decisivo dal punto di vista militare l’intervento di terra del potente esercito turco a Kobane) e assolutamente non condiviso da Teheran, che d’altronde continua a fornire assistenza al governo siriano.

Nel corso dell’ultima settimana di ottobre la tensione si è alzata: alle scaramucce sulla crisi dei Truck (Ankara ha aumentato la tariffe per l’ingresso di camionisti iraniani in Turchia) si sono aggiunte le reciproche accuse di voler prolungare il conflitto in Siria: l’Iran disseminando il Levante di miliziani sciiti, la Turchia evitando un coinvolgimento diretto e un intervento deciso contro l’Isis alle porte del paese.

“Dai tempi dell’impero ottomano i due paesi hanno sempre trovato il modo di convivere pacificamente, nonostante le crisi e le difficoltà. Tuttavia, non sono stati in grado di passare il test della Siria. Gli iraniani credono che la Turchia agisca in modo settario. E per loro la minaccia principale risiede nel settarismo sunnita contro gli sciiti”, afferma il politologo dell’Università di Istanbul Nuray Mert, recentemente in visita a Teheran.

Nel frattempo lo scorso 30 ottobre – mentre i primi pashmerga entravano nella città di Kobane, al confine tra Turchia e Siria – il vice ministro degli Esteri iraniano Amir Abdollahian ha avvertito la comunità internazionale che “l’Iran scruta attentamente le mosse di quelle nazioni estere che stanno cercando di approfittare della situazione di Kobane e minacciare l’unità e l’integrità territoriale della Siria”, con un chiaro riferimento al timore che gli strike aerei nel paese abbiano in realtà l’obiettivo di colpire anche l’alleato Assad (proprio ciò che vorrebbe Ankara).

Questo il quadro del coinvolgimento militare iraniano nella guerra all’IS. Non va dimenticato che dal 2006, cioè da quando il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha preso in mano il dossier nucleare iraniano, esso ha emesso, sotto pressione americana, alcune risoluzioni che nel tempo hanno reso ancor più stringente l’embargo di armamenti nei confronti della Repubblica islamica.  Ciò ha delle conseguenze. In primis, concorre a minare la credibilità dell’Onu, che i conservatori di Teheran considerano uno strumento politico nella mani degli Usa. In secondo luogo, l’embargo sugli armamenti dovrebbe dare la misura dell’intensità dello sforzo iraniano nella guerra contro l’IS, che forse sarebbe ancor più efficace se esso venisse meno o fosse allentato.

I prossimi negoziati di fine novembre sul nucleare iraniano tra Teheran e il 5+1 saranno importanti anche per capire se la cooperazione con gli Usa – che sul campo è un fatto, ma viene tenuta nascosta per non trasmettere la sensazione al mondo sunnita di una alleanza “cristiano-sciita” con l’Iran, visto con sospetto in gran parte del mondo arabo e dagli alleati statunitensi nel Golfo – potrà assumere maggiore concretezza. L’Iran è chiaramente disposto a procedere autonomamente nella guerra contro l’IS, a meno che Washington non faccia concessioni importanti sul dossier nucleare.

L’esclusione di Teheran dalla conferenza multinazionale del 15 settembre ha fornito agli iraniani anche il “pretesto” diplomatico per rivendicare la propria autonomia operativa, nonostante il ministro degli Esteri Javad Zarif e lo stesso Rouhani siano in realtà fautori di una linea più accondiscendente con gli Usa, disposti a cooperare più apertamente in cambio del graduale riconoscimento dell’Iran al ruolo di potenza regionale.

L’analista della London School of Economics Fawaz Gerges fotografa con una frase la posizione iraniana: “Teheran è in Iraq per rimanerci e sta dimostrando quanto seriamente prenda la minaccia dell’IS. Ed è con serietà, che vuole essere trattata”.

Sanzioni nocive e il mito della minaccia iraniana

Che la questione nucleare iraniana non costituisse una minaccia per nessun paese occidentale, era chiaro sin dall’inizio a chi è in buona fede.
Era, tanto per cambiare, un argomento strumentale (oltre che indotto da Israele, l’unico paese che invece una minaccia poteva teoricamente percepirla, a torto o a ragione), in un momento storico in cui veniva spacciato come necessario il fare “fronte comune” contro l’Asse del Male, quello che include(va) anche Siria e Iran. Le minacce, come ben si nota, sono altre, e sono minacce – queste sì – per l’uno e per “l’altro” mondo (quello musulmano tutto e quello musulmano sciita, quindi iraniano).Sarebbe quindi opportuno – perlomeno – porsi un dubbio.
Tutti ci girano intorno, ma nessuno, proprio nessuno che avanzi l’ipotesi che magari – e dico magari – se gli Usa (e l’ue di riflesso, in riferimento a quelle sul greggio e sul nucleare) invece che rafforzare (pochi giorni fa) rimuovessero le sanzioni all’Iran, forse avremmo un altro alleato in una guerra che è e deve essere culturale e non ulteriormente settaria. Le sanzioni costavano all’Iran, nel 2012, 100 milioni di dollari al giorno. Oggi, con la rimozione di alcune di esse, un po’ meno ma parliamo sempre di cifre enormi. In un anno, 2012-2013, si sono persi 33 miliardi di introiti, che chiaramente hanno avuto effetti devastanti sull’economia e quindi sulla popolazione.

Non è che magari – e ripeto magari – se queste sanzioni venissero meno l’Iran stesso, nell’ambito di un processo di collaborazione e di mutua responsabilizzazione, potrebbe destinare più risorse alla guerra contro il terrorismo takfirita (che ha sempre combattuto, a differenza di altri), che punta all’iran sciita-eretico dalla notte dei tempi, evitandoci così l’incombenza di dover finanziare per l’ennesima volta attori diversi, con il rischio non solo di attirare ulteriori minacce ma anche di spianare la strada a futuri problemini di organizzazione statuale e di convivenza, visti i precedenti di paladini del bene finanziati in funzione di nemici supremi e che poi si sono trasformati in paladini del male?

O esiste ancora la fantasia, propagandata dai sauditi e dai loro media in lingua inglese, sull’Iran che punta a creare una sorta Califfato sciita – una riedizione di quello Fatimide, nn so – o che vuole conquistare il Levante, la Penisola e l’Asia centrale con la spada, non potendo fare affidamento sulla demiografia? O esiste ancora una persona convinta che allo stato attuale l’Iran possa minacciare e/o colpire Israele più di quanto non faccia già Israele con l’Iran (droni in perlustrazione, omicidi mirati di scienziati fino allo scorso anno, finanziamento fino al 2010 di grupi qaedisti che operavano contro il Balucistan iraniano), conscia della sua sostanziale invulnerabilità?

Esiste ancora qualcuno convinto che l’Iran punti alla conquista del Libano e della Siria attraverso Hezbollah (creato nell’82 dai pasdaran ma oggi con ampia autonomia decisionale), quando anche un bambino sa che Hezbollah ha oggi un’ala politica rilevante almeno quanto quella militare, con seggi in parlamento, con voti anche dai Cristiani, e che se volesse potrebbe conquistare il Paese dei Cedri con le armi in un pomeriggio scarso, e che se non lo fa forse tutto questo desiderio di espansione non esiste, mentre esiste quello sacrosanto (in un mondo settario) di preservazione, visto che tutti gli attentati dinamitardi a Beirut di cui da anni avete notizia sui media sono diretti contro gli sciiti-eretici ed Hezbollah?
Esiste ancora qualcuno convinto che sia possibile esportare valori, istituzioni e persino la pace con le armi, e farlo con la consapevolezza di essere percepiti come missionari e non come colonizzatori?

Esiste qualcuno che ha capito che in questa apparente contraddizione – il non intervenire militarmente o sostenere militarmente i curdi ma allo stesso tempo considerare i problemi legati alla “Fitna” come problemi anche nostri, di una umanità minacciata da criminali che si considerano musulmani – risiede l’unica soluzione possibile? Che finchè ci si comporta come poliziotti sospettosi ci sarà sempre qualcuno pronto – in misure e modi diversi – a “disobbedire all’autorità” stessa?

Un commento alle parole di Di Battista su Isis

Tornato dal Cairo, ho subito letto il post di Alessandro di Battista sull’Is, per il quale è stato massacrato dalla totalità dei media e da tutto lo spettro politico italiano. Una unanimità degna della Corea del Nord.
Io non ho mai votato M5S e credo che per molti motivi non lo farò nemmeno alle prossime elezioni. Li ho spesso criticati, anzi certamente li ho criticati più di quanto (assai raramente) li abbia elogiati. Alcune cose, però, vanno dette, dato lo sconcertante piattume e la deprimente banalità dei commenti – anche illustri – scaturiti dopo il suo articolo.
L’approccio di Alessandro Di Battista verso alcune questioni che la totalità dei media e dei politici trattano in modo becero e superficiale a me pare quasi corretto. Il problema è, come in altre questioni che gli M5s toccano, la conoscenza specifica di ciò di cui si parla o si commenta. Ho letto il suo post e la ricostruzione storica mi sembra più o meno corretta. Non sono teorie del complotto tipiche dei grillini.
E’ vero che l’Isis rivendica il controllo di un territorio disegnato a tavolino dalle potenze occidentali e sfrutta l’argomento religioso come fattore teoricamente unificante, mettendo in discussione paesi artificiali costretti da sempre a fare i conti con istanze identitarie forti (sia etniche che religiose, e mi pare che lui confonda le due cose) e spinte centrifughe. Paesi, aggiungo io, che in ogni caso sono complessi da governare senza scontentare nessuna minoranza. Paesi multietnici, molto diversi dai nostri.
Di Battista, però, si contraddice (e mi fa pensare che abbia alcune idee confuse in merito, ma non più confuse di gran parte dei politici più navigati) perché nel legittimare in qualche modo le istanze dell’Isis parla della necessità di assecondare la formazione di stati su base etnica.
Esattamente il contrario di ciò che vuole Is, movimento takfirita che trascura volutamente il fattore etnico in favore di quello religioso, che in ogni caso è strumentalizzato (non vi sono “dotti” musulmani nell’Is, né, al di fuori di esso, ve ne sono di rilevanti che hanno legittimato l’operato dell’Is. Ieri, ad esempio, è giunta anche la condanna del Grand Mufti saudita!).
Io, da parte mia, cerco sempre di distinguere tra i diversi soggetti islamici, non assecondo l0approccio islamofobico largamente utilizzato dai media, secondo cui qualunque movimento che faccia riferimento ad Allah è un movimento terroristico.
Questo anche perché – e non si tratta solo di un problema semantico – “terrorista” è innanzitutto un termine vuoto: il terrorismo è una tecnica militare, un modo di condurre operazioni (colpire civili per dissuadere i governanti), peraltro molto utilizzato anche in tempi recenti da varie amministrazioni di Paesi presunti campioni di democrazia.
Prima di proseguire, devo premettere che ho scritto dell’Isis fin da quando si chiamava Aqap o ancora prima, quando i suoi componenti si dedicavano al jihad globale con Al qaeda, quanto di peggio si possa scrivere (e ritengo non si debba dare troppo peso al “divorzio” Is-Al Qaeda perchè il riferimento rimane lo stesso cosiì come la “lotta idelogica”). Lo facevo quando Al Qaeda non era ancora un pericoloso “brand” come è ora, ma era una struttura più o meno identificabile (e conosciutissima tra le amministrazioni occidentali o meglio americane).
Perché banalmente – e semplificando – la logica “del dialogo” cui Di Battista allude con qualche imprecisione e con un po’ di avventatezza l’avrei adottata con attori statali come l’Iran, che è stato il primo paese al mondo a combattere Al Qaeda e quelli che ora sono i suoi eredi su base “localista”, come l’Is appunto.
O con gruppi come Hezbollah e Hamas, che le cancellerie occidentali equiparano pericolosamente ad Al Qaeda e che invece non condividono alcun obiettivo con essa (molti ricorderanno come i media trattarono D’Alema, quando andò a incontrare una delegazione di Hezbollah).
Le aree controllate da Hezbollah in Libano subiscono attentati qaedisti con altissima frequenza da anni, attentati spesso confinati tra le “brevi” nei giornali.
Eh sì, perché sarebbe problematico approfondire le relazioni (e le relative contraddizioni) che intercorrono tra Ryadh, Tel Aviv, Al Qaeda (che infatti non colpisce Israele e considera l’Iran il nemico numero uno…proprio come fanno Israele e l’Arabia saudita),Teheran e di riflesso Beirut, nella sua componente sciita. Parlare o legittimare movimenti come Hezbollah, nemica di Israele, e Hamas, è di fatto un tabù.
Tuttora, in Iran, ci sono e operano movimenti qaedisti come Jundullah, che conducono attentati contro il Balucistan iraniano, e che in passato sono stati finanziati dalla Cia e dal Mossad (perché l’obiettivo, fino ad Obama, era il “regime change”, pratica da abolire), le quali pensavano potessero indebolire l’Iran, ignorando il fatto che essendo qaedisti poi si sarebbero potuti riciclare anche in situazioni come quella che vede l’Isis protagonista.
Solo che, appunto, si è scelto di continuare su altra via, sia per la nota solidarietà occidentale a Israele, sia per la compromissione con Ryad, sia a causa di una rodata logica islamofobica.
L’Is a mio avviso è un manipolo di criminali e basta. Un fenomeno speculare a quello mafioso In occidente, che agisce dove lo Stato è debole, ma con le sue specificità sia in termini di metodo che ovviamente di merito, visto che parliamo di un contesto alquanto differente.
Mi pare ovvio che Di Battista pecchi di ingenuità, se non altro perché, anche ignorando la drammatica situazione attuale in Iraq, è proprio l’Is a non voler dialogare con nessuno, oggi.
Gli bastano i soldi che ricevono dai principi nel Golfo (ricchezza stimata nelle mani dell’Is: 2 miliardi di dollari), principi che fanno affari con Washington e che fanno riferimento – più o meno ufficiosamente – alla Casata Reale degli Al Saud (che finanzia questi gruppi per tenerseli lontano da casa, visto che aldilà dell’identità dottrinaria wahabita anche il governo saudita è considerato Illegittimo dai militanti Isis, che appunto richiamano l’idea raffazzonata e anacronistica del califfato su tutto il mondo arabo-islamico), da sempre alleati della Casa Bianca.
Quelli dell’Isis non sarebbero mai esistiti se il console americano Bremer, nel momento di concepire l’assetto del nuovo Iraq “democratico”, non avesse assecondato l’idea folle di favorire l’emarginazione della componente sunnita (per tacere dello smantellamento dell’esercito, in passato uno dei più potenti del Medio Oriente, ma che oggi manca addirittura di una forza di aviazione), dando agli sciiti la ghiotta occasione di vendicarsi politicamente dopo gli anni di Saddam in cui erano stati fortemente discriminati, repressi e costretti all’esilio, perlopiù in Siria.
E il capitolo repressioni degli sciiti andrebbe aperto, visto che in occidente siamo tanto sensibili alla repressione delle minoranze, ma lo siamo un po’ meno quando queste minoranze erano e sono gli sciiti (i primi obiettivi dell’Isis, essendo a loro avviso dei “falsi musulmani”) in varie parti del mondo arabo e repressi anche da parte di dittatori formalmente laici (come lo era Saddam).
Oggi l’IS c’è e ha la possibilità di attrarre nuove reclute, purtroppo.
Andrebbe certamente rafforzata la cooperazione militare coi pashmerga, ma soprattutto bisognerebbe porsi il problema di come evitare che movimenti del genere ottengano nuovamente consenso in qualche modo. E, soprattutto, cambiare radicalmente posizione nei confronti di Iran, Israele e Arabia Saudita.
Di Battista sarà ingenuo, sarà stato un po’ avventato, ma ha fornito un approccio diverso che con soggetti diversi dall’Is si sarebbe dovuto adottare da tempo, se non fosse per una classe politica e buona parte dei media imbarazzanti su questi temi.
Media e politici che hanno riciclato per giorni gli stessi slogan diffamatori contro Di Battista, senza mai entrare nel merito, mettendolo, secondo me, anche parzialmente in pericolo e rivelando una insospettabile e bipartisan compattezza di opinione (ma dovrei dire di slogan). “Ci vada lui a parlare con l’IS”, oppure “Di battista apre ai terroristi”: non sono commenti uditi al bar della Stazione Termini. Sono i titoli dei principali giornali italiani.

D’improvviso l’Oman. La diplomazia del sultano Qaboos

Le monarchie della Penisola arabica appaiono spesso nell’immaginario comune come un unico soggetto politico in graduale ascesa nella politica internazionale. L’effettiva condivisione di valori, la crescente integrazione economico-politica, i legami di sangue tra i regnanti e l’atteggiamento dei monarchi rispetto alle rivolte arabe iniziate del 2011, hanno rafforzato ulteriormente questa sensazione. “I paesi sunniti del Golfo fanno blocco unico contro l’Iran sciita”.

C’è però un paese, nella Penisola, che è sempre stato più discreto degli altri. Un paese che da quando è divenuto indipendente dal Regno Unito nel 1971 ha sempre – silenziosamente – fatto pesare la propria relativa diversità. Si tratta dell’unico Sultanato del mondo arabo: l’Oman.

L’11 dicembre, un paio di settimane dopo l’accordo di Ginevra sul nucleare iraniano, si è svolto a Kuwait city il 34esimo summit del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC). Durante il cerimoniale d’apertura, il segretario generale del GCC Abdullatif bin Rashid al Zayani definiva il momento “particolarmente delicato”. L’intesa di fine novembre tra Iran e i paesi del 5+1 (Russia, Cina, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania) non era stata certo accolta con giubilo dall’Arabia Saudita, che vedeva il suo principale rivale ideologico e strategico riavvicinarsi ad uno dei suoi maggiori alleati. Tutti gli altri paesi del Golfo hanno espresso più o meno le stesse preoccupazioni. Tutti, tranne l’Oman.

Al summit del GCC in Kuwait i temi caldi erano la Siria e l’accordo di Ginevra. Si doveva discutere della proposta saudita di creare un comando militare interforze congiunto dei paesi del gruppo. In realtà da discutere c’era ben poco: tre giorni prima, al Forum di Manama che ha preceduto il Summit, il ministro degli Esteri dell’Oman Yusuf bin Alawi aveva già comunicato ai sorpresi colleghi qatarioti, emiratini, sauditi, kuwaitiani e bahreiniti la propria ferma contrarietà all’idea saudita. “Si tratta di un progetto che mira al confronto settario con l’Iran”, il commento di un ex diplomatico omanita alla Reuters. “La geografia ci impone di avere rapporti con l’Iran. E’ un paese musulmano situato sull’altro lato del Golfo, con cui dobbiamo ricercare la stabilità regionale”, ha rincarato la dose Anwar al-Rawas, professore alla Sultan Qaboos University di Muscat.

L’unione militare è stata poi annunciata al Summit in Kuwait, ma è chiaro a tutti che al momento sia impossibile realizzarla. Per i sauditi, dopo la doccia fredda di Ginevra, è l’ennesimo dato che segnala il ridimensionamento della capacità d’influenza regionale del regno.

Mappa dell'Oman

Quello di Manama non è il primo rifiuto degli omaniti, che due anni prima avevano già espresso la loro contrarietà ad un’idea simile in virtù dei buoni rapporti con Teheran. A quel tempo, il Sultano aveva già iniziato a preparare il terreno per i colloqui tra Stati Uniti e Iran avvenuti lo scorso settembre. Qualche giorno prima, ad agosto, Muscat e Teheran firmavano inoltre un accordo di 25 anni per l’importazione di gas dal valore complessivo di 60 miliardi di dollari.

Tutto ciò avveniva mentre l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – come ricorda l’italiano Fabio Scacciavillani, economista del Fondo Sovrano Omanita – rimanevano e rimangono tra i principali partner commerciali dell’Oman. L’apertura all’Iran non implica chiusura rispetto ai sauditi: il 18 ottobre scorso Qaboos è stato uno dei primi leader mediorientali a congratularsi con Ryadh per la decisione di rinunciare al seggio presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

“La politica estera omanita è funzionale alla sua stabilità politica interna, e la stabilità politica dell’Oman si basa sulla stabilità regionale” . Basterebbero forse queste poche parole di Marc Valeri, esperto di Oman all’Università di Exeter, per spiegare la diplomazia del Sultano Qaboos bin Said al Said. Sin dagli anni ’80 – quando mediò il cessate il fuoco tra Iran e Iraq mentre le petromonarchie finanziavano l’esercito di Saddam Hussein – Qaboos prova ad agire da stabilizzatore regionale, a fare da ponte tra monarchie sunnite e Iran sciita, ma potenzialmente anche tra mondo islamico  e occidentale .

Nella recente classifica stilata ogni anno dal Royal Institute of Islamic studies di Amman, il Sultano omanita è la nona personalità di fede musulmana più influente al mondo. Non poco, per uno che non è né sciita né sunnita: Qaboos e la maggioranza degli omaniti sono infatti musulmani ibaditi, l’unico ramo ancora esistente della corrente kharigita e predominante nel solo Oman. Una sorta di “terza via dell’islam”, che anche dal punto di vista dottrinale concorre ad alimentare il clima di moderazione del Sultanato, alla ricerca – come altri paesi dell’area – di un modello endogeno e più o meno condiviso di ‘democrazia islamica’.

Nel novembre del 2010 l’ Undp classificava l’Oman come lo Stato che ha beneficiato del maggior sviluppo socio-economico negli ultimi 40 anni su 135 paesi considerati. Secondo il professor Abdallah Schleifer dell’American University of Cairo, l’Oman è “il paese meglio amministrato del mondo islamico e probabilmente del mondo intero” . L’anno successivo Robert Kaplan scriveva più o meno le stesse cose su Foreign Policy.

Se si scorrono gli indicatori economici del Sultanato – esteso poco più dell’Italia ma meno popolato di Roma – si nota che il debito estero è assente. La disponibilità del Fondo sovrano nazionale – l’Oman Investment Fund alimentato dai proventi del gas naturale di cui l’Oman è il primo esportatore tra i paesi non membri dell’Opec – ammonta a circa 100 miliardi di dollari. I cittadini omaniti, poco più di due milioni, possono usufruire di un sistema sanitario e d’istruzione gratuiti, oltre che di un maggior numero di diritti politici e civili rispetto ai paesi confinanti. Lo scorso 7 gennaio il Centro Nazionale per le Statistiche e l’informazione omanita (Ncsi) ha reso noto che nell’ultimo decennio il reddito familiare medio è aumentato dell’89%.

Lo scorso 6 gennaio è stato poi firmato a Muscat un importante accordo tra l’Oman e la British Petroleum per un imponente progetto di sfruttamento del giacimento di gas Khazzan-Makarem, situato nel governatorato di Al Dhahirah, con l’obiettivo primario di far fronte al crescente fabbisogno di elettricità nel paese.

L’accordo da 16 miliardi di dollari (in trent’anni) secondo la Us Energy Information Administration (Eia) avrà l’effetto di accrescere di un terzo la produzione di gas omanita, i cui ricavi costituiscono attualmente il 40% del Pil nazionale. Il 55% dei profitti del Khazzan Gas Project andranno al governo dell’Oman, il resto agli altri partner (Bp, con il 60% e 40% alla Oman Oil Company Exploration and Production, compagnia locale). La crescente proiezione commerciale internazionale dell’Oman, che guarda sempre a nord ma anche a est (India, dove il Sultano ha studiato, Iran, Giappone) e in Occidente, sembra quasi una naturale conseguenza della sua condotta diplomatica.

Il Sultano Qaboos, divorziato e senza figli e diretti successori, è stato definito da alcuni un idealista, quasi un principe illuminato guidato dai principi etici dell’islam ibadita. Un uomo sinceramente interessato alla modernizzazione del proprio paese, in cui convivono in pace sunniti, sciiti, ibaditi e altre minoranze, a nessuna delle quali è precluso l’accesso al welfare. Le proteste di tre anni fa – ridimensionate con aperture democratiche e rimpasti governativi – hanno insegnato a Qaboos a fare i conti col popolo.

Altri lo ritengono un abile e silenzioso stratega, come forse suggerisce metaforicamente la recente visita a Muscat del campione russo di scacchi Garry Kasparov per promuovere la fondazione di una lega di scacchi in Oman, dove il gioco è molto popolare.

Altri ancora ricordano come l’appassionato di musica classica – viaggia sempre con un’orchestra di 120 persone, divenuta un simbolo nazionale. E’ lo stesso Qaboos che non si fece scrupoli a rovesciare il padre Said bin Taimir con un colpo di stato.

Il suo ruolo nel riavvicinamento tra Washington e Teheran è stato fondamentale . Anche se a Ginevra non è mai apparso di fronte alle telecamere che hanno contribuito a rendere ormai delle celebrità i partecipanti all’accordo, tutti – e lui in primis – sanno che uno dei principali artefici è proprio il Sultano. Nonostante ciò, i rapporti con Ryadh – che continua a inondare le tv omanite di programmi a stampo wahabita, che parlano degli ibaditi come degli eretici! – e gli altri paesi del Golfo rimangono rilevanti da ogni punto di vista.

Lo smacco di Manama avrà forse rovinato i progetti di egemonia saudita indispettendo gli Al Saud ma è anche altrettanto probabile che possa essere servito a gettar altre basi, quelle di un raffreddamento della tensione tra Ryadh e Teheran (oggi molto lontano). Segnali di distensione anche da altri paesi del Golfo nei confronti dell’Iran sono già arrivati, in particolare dagli Emirati Arabi Uniti. L’Oman, se si vuole leggere il mondo islamico con la lente dell’eterno scontro tra sunniti e sciiti, non può – come detto – essere assegnato a nessuno dei due campi, ed è forse anche l’esistenza di una tale premessa ad aver consentito al Sultano di fare quello che fa da 30 anni: agire da mediatore.