Month: October 2013
Cosa succede in Giordania
La Giordania attraversa uno dei momenti più complessi della sua storia recente. Da quasi due anni, sono pochi i venerdì (giorno festivo nei paesi musulmani) in cui nei pressi della moschea Al-Hussein di Amman, la capitale e la più popolosa città della Giordania, non viene organizzata una protesta contro il governo. A volte, le proteste assumono anche tenui connotati anti-monarchici. Queste manifestazioni hanno avuto il loro picco lo scorso novembre (dal 13 al 18), quando dopo cinque giorni di scontri tra le forze di sicurezza e i manifestanti ci contarono tre morti e ottantatre feriti.
Eppure la situazione rispetto agli altri paesi del Levante e del mondo arabo che hanno attraversato o stanno attraversando profonde fasi di cambiamento o di guerra (Siria, Egitto, Libia, Tunisia) rimane tutto sommato stabile. In pochi oggi credono che ci siano le condizioni per una primavera giordana, o addirittura per un rovesciamento dell’attuale status quo.
Anzitutto due fattori spiegano l’unicità della situazione giordana. La Giordania è l’unica monarchia dell’area priva di risorse naturali, e la sua tenuta economica dipende molto dall’aiuto estero (Arabia Saudita in primis) e dalla buona gestione del governo. Non c’è, come negli altri paesi del Golfo, la frequente possibilità di sfruttare i ricavi petroliferi per effettuare trasferimenti monetari o di risorse alla popolazione quando mostra segni di malcontento. Re Hussein in passato e oggi suo figlio, Abdullah II, sono sempre stati molto attenti a non promettere alla popolazione più di quanto non potesse essere ragionevolmente mantenuto, al contrario di quanto hanno fatto alcuni regimi militari che hanno governato a lungo in Medio oriente. Così, mentre ad esempio Saddam Hussein in Iraq, Zine Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto (ma non solo) promettevano alla popolazione “prosperità e prestigio internazionale”, i monarchi hashemiti in Giordania si sono sempre limitati al più sobrio impegno a “garantire una vita migliore per i giordani”, una frase utilizzata quasi come un mantra sopratutto da Re Hussein.
In secondo luogo, l’assetto in parte tribale del tessuto demografico giordano (come quello di tutte le monarchie del Golfo) ha contribuito allo storico radicamento del principio dinastico ereditario, praticato sin dai tempi del Califfato. Nel caso della monarchia hashemita di cui Re Abdullah II è rappresentante, l’accettazione del principio ereditario trova anche una sua legittimità ancestrale: il clan dei Banu Hashim (da cui, hashemiti) è infatti considerato diretto discendente della famiglia del Profeta Muhammad.
I giordani sono scesi e scendono in piazza per motivi economici, soprattutto a causa della crescente disoccupazione e della rimozione da parte del governo dei sussidi al carburante e in generale ai derivati del petrolio, che ha provocato un’impennata nei prezzi della benzina e del gas. Si tratta di una misura che il governo di Amman ha dovuto introdurre anche per vedersi concedere, lo scorso agosto, un prestito di 2 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale. C’è invece poco interesse da parte del popolo rispetto ai continui rimpasti governativi decisi negli ultimi anni dal re: l’ultimo, che ha portato alla nomina di Abdullah Ensour come primo ministro e alla diminuzione del numero dei ministeri, è avvenuto alla fine di marzo.
Uno studio condotto dal Dr. Asher Susser del Crown Center for Middle East Studies dell’Università di Brandeis (Massachussets, Usa) evidenzia tre elementi che contribuiscono a garantire la stabilità e la longevità della monarchia giordana.
Il primo è l’esistenza di una solida e potente elitè trans-giordana – i cosiddetti East bankers, in opposizione ai West bankers, cioè i palestinesi – a cui il Re assicura un certo grado di ‘protezione’. Sin dagli anni ’70 in Giordania è in atto un processo di giordanizzazione (Hardanna), attraverso il quale i palestinesi (circa la metà della popolazione) sono stati gradualmente rimossi dalle posizioni di potere sia in ambito governativo che militare, in favore appunto dei trans-giordani.
Così, oggi si è venuta a creare una divisione abbastanza chiara: il settore pubblico e l’apparato militare sono controllati dagli East bankers e quello privato dai West bankers. In Giordania c’è una sorta di contratto sociale non scritto tra Abdullah II e l’elite trans-giordana, che assicura la sua lealtà al Re in cambio di protezione. I più danneggiati dalla crisi, quindi, sono certamente i palestinesi.
Il secondo fattore è collegato al primo: il Re e l’elitè trans-giordana vengono protetti dal potente apparato di sicurezza del paese, condizione che rende sconveniente qualunque tentativo di messa in discussione dello status quo da parte di eventuali oppositori.
Il terzo è invece legato alla presenza di attori esterni interessati al mantenimento della stabilità del Paese. La monarchia hashemita in Giordana è l’unico regime ancora al potere tra quelli che si sono stabiliti durante gli anni ’20 nella zona della Mezzaluna fertile. Gli Stati Uniti, Israele e sopratutto l’Arabia Saudita – che vuole evitare esempi di emulazione – sono alleati preziosi per la Giordania. Inoltre l’eventuale caduta della monarchia di Re Abdullah II potrebbe favorire l’ascesa di partiti islamisti come il Fronte d’azione Islamico, guidato da Hamza Mansour, braccio politico dei Fratelli Musulmani in Giordania.
La richiesta di democratizzazione del sistema politico viene comunque sostenuta sia dagli East bankers, legati politicamente per lo più al movimento riformista Al-Jabha al-Wataniyya lil-islah capeggiato dall’ex ministro dell’Intelligence (Mukhabbarat) Ahmad Ubaydat, oggi all’opposizione, che dal Fronte d’azione islamico sostenuto sopratutto dai West bankers. Si tratta del movimento d’opposizione meglio organizzato, che gode in generale anche del più ampio consenso fra la popolazione. Anche il Fronte d’azione Islamico chiede un maggiore grado di democratizzazione e ha boicottato le ultime elezioni parlamentari dello scorso 23 gennaio (in cui l’affluenza è stata del 57% circa, alta per gli standard giordani), perché la legge elettorale sottorappresenta i distretti urbani, a maggioranza palestinese (con quelli rurali a maggioranza trans-giordana).
Il paradosso sta nel fatto che più gli East bankers chiedono un sistema maggiormente rappresentativo, più l’allargamento di questo sistema rischia di favorire il Fronte d’azione Islamico, generalmente sostenuto dai palestinesi, e i West bankers in generale.
La tenuta della monarchia di Abdullah II dipende sopratutto dagli ultimi due fattori tra quelli evidenziati dallo studio di Susser. La lealtà da parte dell’esercito è una costante nel mondo arabo-islamico, perché i rovesciamenti sono quasi sempre avvenuti quando le Forze armate ripensavano il loro sostegno nei confronti dell’estabilishment.
La consistenza del sostegno economico da parte di Usa e Arabia Saudita (e del Fondo Monetario Internazionale), poi, influenza la capacità della monarchia di assicurare il benessere della popolazione. Senza aiuti esteri, petrolio a buon mercato dai sauditi, la situazione sarebbe molto più problematica. Non è un caso che il periodo più travagliato per la Giordania, alla fine dello scorso anno, sia arrivato nel momento in cui i suoi partner (Arabia Saudita e Usa) hanno ridotto la portata dei loro aiuti finanziari per la precedenza data alle sfide interne (disoccupazione in crescita in entrambi in paesi) e il sostegno ai ribelli in Siria, in cima alle priorità nelle agende dei governi di Washington e Ryad.