L’Occidente e la sua percezione dell’Iran dopo la rielezione di Rouhani

In Occidente, gran parte degli osservatori ha tirato un sospiro di sollievo per la rielezione di Rouhani, percepito non a torto come rappresentante di una postura dialogante, conciliante e pacifica dell’Iran rispetto al resto del mondo.

Ora, premesso che l’Iran post rivoluzionario anche nelle sue fasi più dure non ha mai posto minacce globali o dichiarato guerra all’Occidente – se non in situazioni particolari in cui truppe o autorità occidentali, americane e francesi in particolare, venivano percepite come occupanti, come accadde per esempio negli anni 80 a a Beirut, in piena guerra civile – , sia che fosse governata da Khatami, da Khamenei, da Ahmadinejad, Rafsanjani o Rouhani, è interessante notare come questo sospiro di sollievo, ancorché comprensibile, sia emblematico di un certo euro centrismo, della percezione occidentale di una sola parte di realtà, quella che legge l’Iran solo attraverso le lenti della sua minore o maggiore (supposta) aggressività o pericolosità.

Le cose, se lette in un’altra ottica, stanno diversamente. Da quando è al governo Rouhani ha davvero fatto l’impossibile per assecondare molte delle pretestuose richieste occidentali, con l’obiettivo di riavviare una economia molto danneggiata dalle sanzioni (alcune stime parlando mediamente di 70-80 miliardi di dollari persi ogni anno, dal 2002 a oggi). Lo ha fatto in nome del dialogo, del mutuo rispetto, di una stagione di “compassione, fiducia e comprensione” (diceva nel suo discorso inaugurale del 2013), conscio dell’immagine che si tende avere all’esterno del suo Paese.

Il suo percorso politico è stato lodevole, si, e personalmente posso dire di essere contento della sua meritata rielezione. Ma cosa ha ottenuto in cambio? Quali sono le ragioni che hanno spinto un terzo abbondante degli iraniani a votare contro di lui? La vulgata tuona: “eh, ma chi vota conservatore è retrogrado, fanatico, guerrafondaio”.

Sbagliato. Sarebbe ora di guardare ai contesti politici con occhi diversi, considerando le istanze e le ragioni di tutti, e non leggendo la realtà rivolti unicamente al nostro ombelico.

Mentre Rouhani due giorni fa nel suo discorso post rielezione ribadiva la bontà del suo percorso, l’intenzione di proseguire in un cammino “di pace, di prosperità, di dialogo”, a Riad arrivava Trump, per siglare un accordo per la fornitura di aiuti militari per 350 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni. Una cifra che l’Iran non ha speso nemmeno in 30 anni, visto che mediamente dal 90 ad oggi le spese medie per la difesa di Teheran ammontano a circa il 2.5% del PiL, le più basse della regione.

Da parte sua, anche senza questi aiuti promessi dal neo presidente americano, l’Arabia Saudita nello stesso periodo ha speso circa il 10% del PiL in armamenti. Questi aiuti arrivano peraltro all’indomani delle minacce americane nei confronti di Teheran, rea di sviluppare un sacrosanto programma missilistico che tutti – nella regione ma anche nel mondo – portano avanti (chi in ambito Nato, chi fuori) in un’area altamente conflittuale, che in ogni caso vede l’Iran accerchiato da potenze dichiaratamente ostili (Saudi, EAU, Qatar, Pakistan, Talebani, Al Qaeda, Isis, Stati Uniti con le loro 63 basi militari, alcune di esse vicinissime ai confini dell’iran, rispetto al quale ogni singola amministrazione americana ha sempre ribadito la validità dell’opzione di “regime change”, se necessario tramite azione militare).

Capite perché alcuni iraniani non è che siano pazzi, ma semplicemente hanno diritto a ritenere dalla loro prospettiva un po’ naive le parole d Rouhani sulla pace e il dialogo, mente fuori dai confini iraniani ci si prepara a mettere Teheran all’angolo senza nemmeno troppi sotterfugi e escamotage?

Il dialogo, la pace, il “mutuo rispetto basato su mutuo riconoscimento” (parole del brillante Zarif) si portano avanti in due, o più. Non può essere unilaterale, altrimenti è né più né meno una presa per i fondelli, cui gli iraniani sono abituati da decenni.

Qui invece abbiamo un Paese che con l’accordo sul nucleare ha rinunciato ad alcuni suoi diritti sanciti dall’Npt, ha perso valanghe di soldi, per ritrovarsi con un pugno di mosche in mano: le sanzioni sono state rimosse in minima parte, le banche americane minacciano sostanzialmente ogni azienda occidentale che voglia fare affari con Teheran, e gli Stati uniti di Trump hanno appena partecipato al primo summit arabo-americano, quello citato sopra, in palese funzione anti iraniana, con la benedizione di Israele (che da una parte si atteggia a baluardo contro l’estremismo islamico, dall’altra ha in Riad – portatrice del vessillo wahhabita – un solido alleato).

Una storia di inganni che si ripete da decenni: si era già visto alla fine della guerra Iran Iraq (e anche durante, visto che l’Occidente finanziò Saddam per tutto il conflitto, e l’Onu mancò clamorosamente di sancire a fine guerra il lampante ruolo di aggressore del Rais iracheno), come si era visto anche nel 2002, quando l’allora presidente Khatami – che così segnò tristemente e involontariamente il suo declino – fornì lo spazio aereo iraniano alle truppe americane nella guerra contro i Talebani, vedendosi ringraziare da Bush jr con l’inserimento di Teheran nel celebre Asse del Male. Queste cose gli iraniani non le dimenticano. E non è mica fanatismo.

Dobbiamo rallegrarci del buonsenso forse addirittura eccessivo di una parte dell’elettorato iraniano. Ma inviterei a non confonderlo con pazienza illimitata e con ingenuità. C’è un limite a tutto: anche alla buona creanza.

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